La storia della Sicilia è un affascinante mosaico di culture e dominazioni che hanno lasciato un’impronta indelebile sull’isola non solo dal punto di vista storico e monumentale, ma anche dal punto di vista delle tradizioni popolari, dei racconti e delle fiabe. Molte di queste narrano infatti leggendo di mostri e varie creature leggendarie che ritroviamo in ogni angolo dell’isola e proprio qui di seguito sono state raccolte le più conosciute, un piccolo manuale del tipo “Animali fantastici e dove trovarli…in Sicilia”.
La Marabbecca
Tra le ombre più profonde ed oscure della terra, si nasconde la Marabbecca, una creatura mostruosa che nell’immaginario collettivo si presenta come un mostro che vive nei pozzi e nelle cisterne d’acqua in attesa che i bambini e gli adulti vi caschino dentro. Questo spauracchio fu inventato delle madri del mondo rurale per cercare di tenere lontani i propri figli dalla pericolosità dei pozzi ed incarna anche la paura stessa di ciò che non si vede, di ciò che la nostra mente pensa vi sia in attesa nel buio (in questo caso l’oscurità dei pozzi).
Fin dai tempi antichi infatti, pare che i pozzi fossero molto utilizzati e quindi molto più presenti rispetto ad oggi, sia nelle varie proprietà terriere che nei luoghi d’incontro comune, come le piazze di città o paesini. Oltre che fungere da luogo d’incontro per adulti, fornivano un punto di gioco e ritrovo per i bambini, ignari del pericolo cui sarebbero andati incontro se si fossero esposti troppo per curiosità in maniera incauta. Così, le madri, per proteggere i loro piccoli, hanno probabilmente messo in giro la voce che se fossero finiti a giocare troppo vicino ai pozzi, sarebbero stati vittime delle enormi fauci della Marabecca.
Secondo alcuni studiosi la parola “marabecca” ha origine dal mondo arabo (cosa fattibile viste le influenze culturali e storiche che quest’isola ha avuto), un mondo tra l’altro non estraneo alla siccità e all’uso dei pozzi. In quanto a fattezze, non vi sono fonti certe, ma si preferisce immaginarlo come un grosso anfibio nero, con un enorme bocca capace di attirare a sé le proprie vittime.

U Muddittu
Molto simile al Fuddittu reggino, u Muddittu siciliano è un folletto che incarna quasi tutti i cliché dei suoi simili: dispettoso, molesto e in grado di comparire e scomparire a proprio piacimento per procurare fastidi alla gente. La particolarità forse più sinistra, rispetto ovviamente agli altri folletti, è il suo essere schivo e alquanto vendicativo contro chiunque gli rechi fastidio o deturpi il suo habitat. Le sue vendette possono comportare danni temporanei dovuti a piccoli incidenti, ma anche gravi ferite, se non addirittura la morte del malcapitato.
Oltre a dei semplici abiti, egli indosserebbe un mantello nero e sul capo un cappello rosso, oggetto agognato dalla gente, infatti, la leggenda vuole che questo sia l’unico espediente per far rivelare al folletto l’ubicazione dei propri tesori.
Secondo i racconti è un frequentatore di campagne e di case abbandonate della zona di Messina e solitamente, almeno con i bambini, “u Muddittu” è un pò più clemente, tanto che si diverte a stuzzicarli nel sonno per farli sorridere. Ogni tanto ce n’è qualcuno che dice di aver giocato con qualche “strano bambino col cappello” nel giardino di casa ed a tal proposito riporto qui di seguito una vecchia storia che mi fu raccontata da mio padre anni fa.
La leggenda da’ casa do Muddittu
“A Giardini Naxos, nella zona del porto di Recanati, c’è un grande casolare, il Castello di Schisò, (denominato dai residenti appunto “a casa do Muddittu”) in cui in tempi remoti viveva una ricca famiglia. Questo casolare era dotato di un ampio giardino interno dove l’unica figlia era solita giocare o nascondersi dai genitori come fanno solitamente i bambini quando sono in tenera età. Un giorno la bambina raccontò al padre che, spesso, apparendo magicamente dai cespugli, veniva a trovarla un bambino con la barba e con il cappello a punta. Il padre, insospettito e sicuro che il giardino fosse inaccessibile a bambino alcuno, si ricordò di una leggenda secondo cui strani esseri minuscoli, o folletti abitanti di boschi o di campagne, avessero portato enormi fortuna e ricchezze a chiunque fosse riuscito a strappargli il cappello dalla testa. Difatti proprio così disse di fare a sua figlia la prossima volta che avesse giocato assieme a questo misterioso visitatore. La bambina, qualche tempo dopo, racconto però al padre che aveva fallito nel suo intento e che da allora non rivide mai più quel suo compagno di giochi e ciò la rese molto triste, tanto da farla ammalare. Qualche tempo più tardi tutta la famiglia cadde in disgrazia.”

La Biddrina
Il termine Biddrina deriva dall’arabo e indica un serpente acquatico di grandi dimensioni, simile ad un Basilisco. Se ne parla molto in provincia di Caltanissetta, dove l’influenza araba è stata più forte. Pare abiti nelle zone umide delle campagne, dove si tende ad immaginarlo come una biscia di enormi dimensioni, almeno sei metri di lunghezza, con la testa simile a una grancassa e una colorazione tra il verde e il blu. Dalle fattezze di un drago e di un coccodrillo, è visibile prevalentemente di notte, in particolare per via degli occhi rossi e della sua corazza durissima composta da squame luminose. Si aggira tra gli alberi e le canne, mangiando capretti, agnelli ed esseri umani e bevendo l’acqua sulfurea che scorre nei pressi delle miniere, acquisendo forza e immunità ai danni fisici.
La leggenda vuole che una comune biscia, rimanendo nascosta per sette anni, possa diventare una Biddrina come per magia. Nella cultura popolare, il suo nome viene usato per apostrofare donne particolarmente cattive ed è accostabile alla vipera.
Pare che nel secolo scorso ne fosse stata uccisa una a Contrada Cammuto, nei pressi di Mussomeli, dove la sua figura è scolpita su una fontana, insieme alla datazione dell’evento. Negli anni ’50 furono invece uccisi due esemplari da un gruppo di pastori nella vallata sotto il monte Saraceno, mentre un’altra venne abbattuta nella contrada Cosciu durante gli anni ’60, con la presenza dei Carabinieri, dove una contessina del luogo ordinò che il rettile fosse bruciato.
Attualmente a Butera, durante la festa di San Rocco, viene portato in giro per le strade “u sirpintazzu“, uno spauracchio di carta molto grande, volto a ricordare proprio l’uccisione di una Biddrina che infestava contrada Sieggiu, avvenuta nel giorno della Madonna Assunta, il 15 Agosto, da parte di alcuni pastori del luogo che riuscirono ad adescarla mediante un’oca.

U Sugghiu
Nel caso del Sugghiu ci troviamo di fronte a un mostro nel vero senso del termine: trattasi di un ibrido tra un essere umano, un mammifero e un rettile, dalla lunghezza di circa due metri, con il corpo ricoperto di squame verdastre e con occhi feroci come quelli di un cane rabbioso. Il suo verso, utilizzato per attirare gli altri animali in modo da divorarli con ferocia, non è meno inquietante e ricorda sia il grugnito di un maiale che il raglio di un asino. Si dice che lo stomaco del Sugghiu è molto resistente e gli consente di digerire perfino le pietre. Molti contadini attribuiscono al Sugghiu i furti di ortaggi e dei capi di bestiame.
Questo mostro è stata avvistato anche di recente in varie zone della Sicilia, inclusi boschi, paludi e località costiere. Fin dai primi anni dell’800 ne sono state rinvenute delle presunte tracce sulla costa tirrenica e ionica, nella zona di Agrigento e di Ragusa. Nonostante i frequenti incontri con l’uomo, in pochi hanno provato ad affrontare questa sorta di “Chupacabra del meridione”, ma pare che un cacciatore gli abbia scaricato addosso l’intero caricatore del suo fucile senza procurargli alcun danno visibile, deducendo che le scaglie della sua pelle siano durissime. Ad avvalorare la prova della sua esistenza, è un fatto di cronaca che coinvolse la città di Catania negli anni ’80, dove la creatura emerse dalle acque del mare per divorare un vitello.
Ma qual è la vera natura di questo essere? C’è chi parla di extraterrestri, chi di una mutazione, chi di un animale preistorico risvegliatosi ai giorni nostri. Nel dubbio, vi lasciamo con il proverbio “Nun jiri ‘dda ca veni ‘u sugghiu e ti pigghia!” (Non andare là perché arriva il Sugghio e ti prende).

La vecchia di li fusa
La “vecchia di li fusa” (vecchia tessitrice) è un mostro dalle origini molto antiche, riconducibile alla dominazione greca nella zona di Selinunte e di Scicli. Nell’immaginario collettivo ha le fattezze di una donna molto anziana, dall’aspetto pauroso e dalla statura elevata, coperta solo da qualche straccio che ne lascia intravedere le nudità, che notte e giorno non smette di filare ed avvelenare con lo sguardo.
Il filo che tesse incessantemente è la rappresentazione stessa della vita mortale del malcapitato di turno che si imbatte in lei, infatti, parente stretta delle Parche, vive in antri nascosti dove sta a guardia di alcuni tesori nascosti dal suo incantesimo. Pare che per disincantarli occorra slanciarsi d’assalto su di lei e toglierle di mano la rocca ed il fuso impedendo che ne rompa il filo, proprio per la ragione che la sua rottura provocherebbe la subitanea morte dell’incauto.

I Cani neri
I boschi siciliani sono stati sempre affollati da animali notturni, ma nello specifico, i boschi di castagneti della zona nord dell’Etna, dal lato della città di Messina, pare che siano frequentati in alcuni periodi dell’anno, sopratutto nel periodo precedente al Natale, da diabolici Cani neri, con occhi infuocati e zanne fameliche, che latrano nella notte con versi simili al lamento dei bambini (che in dialetto viene detto “trìolo”).
Questi cani, infatti, almeno così dice la leggenda, escono fuori dall’inferno nel periodo in cui le forze del male sono più forti, cioè nei giorni della novena di Natale, in cerca delle anime fuggite (sì, ogni tanto qualche anima fugge!). Essendo delle bestie immonde col solo scopo di riportare l’equilibrio tra le anime che stanno da questa parte e quelle che stanno nell’al di là, non fanno distinzione tra gli esseri umani nei quali si imbattono, divorando senza pietà con una fame insaziabile, in modo da sostituire quella povera anima con quella realmente fuggita. Questa leggenda rappresenta un antico retaggio della tradizione egizia di Anubi, dio della morte, unita al mito greco del cane a tre teste, Cerbero, a guardia degli inferi.

Cariddi
Questa figura mitologica è abbastanza famosa in tutto il mondo e pare sia inscindibile dalla sua gemella Scilla, essendo entrambi i mostri dello Stretto di Messina. Tuttavia si tende a far appartenere Cariddi alla Sicilia e Scilla alla Calabria, infatti, come scrisse Virgilio nel terzo libro dell’Eneide:
“Nel destro lato è Scilla; nel sinistro
È l’ingorda Cariddi. Una vorago
D’un gran baratro è questa, che tre volte
I vasti flutti rigirando assorbe,
E tre volte a vicenda li ributta
Con immenso bollor fino a le stelle.”
A Capo Peloro, la punta più estrema della Sicilia in cui si trova il famoso “pilone” (gemello di quello presente in Santa Trada di Villa San Giovanni in Calabria), proprio in quella zona di raccordo e di confluenza delle correnti tirreniche e ioniche dovrebbe risiedere Cariddi.
Cariddi un tempo era una Naiade, una specie di ninfa dei mari, figlia di Poseidone e di Gea, poi punita da Zeus per la sua feroce e incontrollata voracità. La ninfa venne tramutata in un orrendo mostro marino, con una bocca piena di denti mostruosi e in grado di creare mulinelli d’acqua molto potenti, in grado di risucchiare le navi e le barche a sé. Nei miti e nelle leggende sappiamo che gli Argonauti guidati da Giasone e alla ricerca del Vello d’oro, riuscirono a evitare le terribili acque di Cariddi grazie a Teti che, guarda caso, era una Nereide, la quale mise in guardia i navigatori dalle insidie di quelle acque. Più sventurato fu invece l’equipaggio di Ulisse che, dopo essere scampato malamente dalle fauci di Scilla, perì risucchiato dal maelstrom generato da Cariddi, che distrusse ed inghiotti l’intera nave.
L’origine della leggenda è probabilmente legata al fatto, in tempi antichi, di dare una spiegazione alle violente correnti che si originano nello stretto di Messina, generando vortici di acqua che rendono complicata la navigazioni alle imbarcazioni più piccole.

Il cavallo senza testa
Una leggenda narra che nel 1700 a Catania, in via Crociferi, si incontrassero, nelle ore notturne, amanti, criminali e cospiratori. Era dunque un luogo sinistro e poco frequentato dalla gente perbene, tanto che si evitava di transitarci e chi era obbligato faceva in modo di non essere visto. Probabilmente, per scoraggiare i curiosi che potevano rivelarsi testimoni scomodi delle malefatte compiute in quella strada, qualcuno iniziò a far girare la voce che in quella via, di notte, si aggirasse un cavallo senza testa.
Per scoraggiare la scaramanzia e per dimostrare che fossero solo storie, pare che un giovane catanese, durante una scommessa con gli amici, promise di attraversare la strada nottetempo, piantando un chiodo sotto l’arco del monastero di San Benedetto, come testimonianza del suo passaggio. A mezzanotte il ragazzo si recò sul posto ed iniziò a picchiettare sulla parete per piantare il chiodo più in fretta che poteva. Quando abbe finito e fece per andarsene di corsa si sentì tirare il mantello ma, quando si voltò, non vide nulla che lo stava tirando ed ebbe uno spavento tale da avere un infarto. Il giorno dopo, all’alba, il corpo senza vita del ragazzo venne ritrovavo a terra, col mantello impigliato nel chiodo che egli stesso aveva piantato erroneamente, forse per la fretta, per l’ansia o per la poca luce. Da allora ci vollero anni prima che qualcuno rimettesse piede in via Crociferi quando calava il sole. Si racconta che ancora oggi, a notte fonda, sia possibile udire gli zoccoli di un cavallo sull’asfalto.

Fonti
– “Bestiario Italia, creature leggendarie in Sicilia”, www.monstermovieitalia.com;
– “Usi e costumi del popolo siciliano” Vol. IV 1939 , Pitrè;
– “Per una Cronistoria di Campobello di Licata“, Ugo Antonio Bella;
– “Linee di folklore canicattinese“, Acireale, 1914, C. A. Sacheli